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Autore: Roberto Bugliani
Editore: Genesi Editrice
Formato: libro
Collana: I Gherigli,
Pagine: 84
Pubblicazione: 2012
ISBN/EAN: 9788874143665
Aforismi, pensieri e riflessioni
PREFAZIONE
La matrice di Roberto Bugliani è quella del pólemos, la battaglia, da intendersi come contesa intorno alle ragioni profonde del vero e di contrasto ai lemuri e alle sirene che infingono le cose del mondo e lo moltiplicano con l’accrescimento di un sopramondo a stringhe indefinibili. Detto così, tralasciando quel tanto di epico e di cavalleresco che è appannato nella definizione e che male si attanaglia alla personalità schietta di Bugliani, significa che per lui la poesia è un discorso sul potere rivelante della parola. La questione a monte è: la parola riesce a nominare le cose del mondo? Se si risponde di sì, ne deriva, come conseguenza, che il poeta, essendo della parola il sacerdote ovvero la vestale, ha il compito adamitico di dare il nome alla mondanità e, ove esistesse, anche al sopramondo: egli custodisce il significato corretto delle parole e, quindi, è capace di ritrovare l’identità e le corrispondenze tra i fenomeni e i discorsi che li descrivono. Se si risponde di no, significa che il poeta, al pari del musicista o del pittore o di tutti gli altri artisti, non possiede affatto il codice di corrispondenza perfetta fra le cose e le parole, ma esprime nell’astrazione dell’arte un discorso autonomo sulle origini e sulle occasioni della bellezza, e, quindi, elabora delle ipotesi estetiche e nulla di più. Bugliani è schierato dalla parte di coloro che credono nella capacità della poesia di pronunciare il vero e il giusto e che quindi tendono ad attribuire alla poesia anche un valore etico, come capacità filosofica non solo di formulare la verità e la giustizia mondana, ma anche come valenza dialettica di distinzione tra le azioni umane ispirate al bene comune rispetto a quelle che, invece, non lo sono. Il punto di riferimento diviene, in modo quasi scontato, Jean Paul Sartre, il filosofo-scrittore che si è posto l’impegno morale di verità-giustizia-libertà come unico valore a cui attenersi nella sua azione intellettuale, al punto di sacrificare ogni e qualsiasi onore o privilegio, compreso il rifiuto di diventare Accademico di Francia e il rifiuto di ricevere il premio Nobel, pure di mantenere massima la sua percezione teorica e la sua prassi operativa di libertà e di impegno morale. Bugliani, se è lecita l’espressione, riparte da Sartre, cioè compie un balzo indietro di oltre trent’anni per colmare il vuoto abissale degli ultimi anni di cultura occidentale che hanno totalmente rimosso l’engagement dell’intellettuale o, peggio ancora, lo hanno ridotto alla burla di manifestazioni estemporanee e sovente contraddittorie – oltre che equivoche – quali la difesa del panda e dell’ambiente, i diritti degli omosessuali, le energie alternative, la parità dei sessi, e infinite altre declinazioni parziali ed episodiche dei modi di essere della verità, della giustizia e della libertà, senza mai sapere elaborare l’etimo comune del pensiero fondante di appartenenza. Ma perché Sartre? Non solo per la complessità intellettuale della seducente definizione di existenzialisme engagé, e per la contaminazione ineliminabile della responsabilità di sporcarsi le mani che tale posizione mette a nudo, ma perché l’uomo Jean Paul Sartre seppe traguardare il livello di una solitaria autorità morale, con specialissima ricaduta e influenza politica capace di imporsi all’attenzione e al rispetto dei più importanti governi nazionali del Pianeta, tale che nessun altro intellettuale d’Occidente o d’Oriente ha mai più saputo raggiungere. Una sorta di Diogene in chiave moderna, che si fa beffe di Alessandro Magno e lo invita a mettersi di lato, visto che il suo corpo oscuro fa da schermo allo splendore naturale del sole. Fuor di metafora, Sartre invita l’intera cultura dominante dell’Occidente e, quindi, gli Stati Uniti d’America in speciale modo a fare un passo indietro e a mettersi da parte per fare spazio alle culture delle antiche etnie colonizzate e restituire loro verità, giustizia e libertà: scrive la prefazione a Frantz Fanon per il libro I dannati della Terra e dà dell’idiota a Flaubert. Si noti la profonda intelligenza e sofferenza del vocabolo prescelto, che inevitabilmente evoca nelle nostre menti il principe Myskin e la di lui partecipata compassione verso gli intrighi mondani, testimoniati bordeggiando la pazzia. Va da sé che l’evocazione di Sartre – e dell’intero ambiente filosofico che è collegato per armonie e per diversità con il filosofo francese, come Husserl, Heidegger, la scuola di Francoforte, Lévi Strauss, Lacan, Derrida, Deleuze, Foucault e quant’altri – vengono proposti da Bugliani come pars construens del suo epos, che è poi l’esposizione della sua poetica, cioè il percorso della mente attraverso cui si articola e si colloca nel tempo attuale la sua poesia come atto civile di interpretazione e di testimonianza della storia. Lungi da Bugliani ogni tentazione di amarcord felliniano. La sua poesia non è mai un memoriale autoreferente, ma non è neppure la serie dei decennali filosofici conservati nella biblioteca dell’accademia. Due condizioni della modernità sono bene chiare nella poetica di Bugliani: la crisi irreversibile della lirica egoica e la stracca della poetica delle “occasioni”, cioè di quei barlumi di poeticità quotidiana dispersi come pulviscolo residuale del big bang surrealista realizzato dal grande veggente di Charleville, e da cui prese a suo tempo le mosse tutta la poesia moderna. La grande ferita che annichilisce tuttora la poesia è, ovviamente, il folle martirio della violenza celebrato con fasto per tutto “il secolo breve”, come lo definisce Hobsbwam e che tra l’altro fa esclamare ad Adorno “dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie” e che suscita un moto di stupore in Vittorio Sereni, che si arrende alla mesta constatazione che “se ne scrivono ancora”. Le due posizioni campiscono l’intervallo massimo della poesia moderna. Da un estremo si afferma che non è più possibile scrivere poesia, ma semmai si potrà conservare solo il fantasma vuoto del gesto, per cui il testo esala sulla pagina che rimane bianca e nel vuoto del foglio galleggiano solo i numeri delle note a piè di pagina, come avviene nelle opere degli artisti astratti che espongono unicamente la cornice per creare un hortus conclusus circoscritto intorno al nulla dell’opera mancante, resasi storicamente evanescente e improponibile. Dall’altro estremo, invece, ecco che Bugliani dedica a Vittorio Sereni – e l’emblema simbolico della linea lombarda della poesia italiana disegnata da Anceschi non è scelto a caso! – una poesia di suprema eleganza e di profonda cultura poetica, che rinverdisce il meglio degli strumenti umani, ancora oggi rimasti a nostra disposizione.
Bah, c’è poco da dire sulla capacità di altissima fattura poetica di Bugliani! Anzi, ci sarebbe da dire troppo, perché il carnet del lettore è veramente pieno di annotazioni al termine del libro, dopo avere riflettuto, compulsato, riletto tutti gli inviti, pronunciati dallo scrittore, a guardare nello specchio delle meraviglie del testo. Resta impresso, sopra ogni altra cosa, il sobrio e altissimo testamento lasciato da Cesare Pavese qualche giorno prima di ingoiare le pillole per il grande sonno, “La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti” e poi quel definitivo e spoglio ammonimento, “non fate troppi pettegolezzi”, che funziona come suprema livella di abbattimento dei meccanismi della mondanità e che vuole anche essere la soglia dell’ineffabile della poesia, pronunciata con le parole poverissime di Totò: “Ste pagliacciate appartengono solo ai vivi, noi siamo seri, apparteniamo alla Morte!”.
Sandro Gros-Pietro
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