PREFAZIONE


Marcello Croce è uno studioso torinese che ha coltivato insieme filosofia, storia e letteratura, non solo come impegno civile della vita, ma anche come autentica forma di amore per la conoscenza e come metodo di sapienza, costruito sulle sudate carte. Nella vita ha deciso di realizzare un’unica espressione di professionalità: l’insegnamento. E lo ha svolto come dedizione di sé, ai diversi gradi di responsabilità e con differenti sbocchi di orientamento nella preparazione degli studenti, verso qualificazioni sia professionali sia classiche. Ma l’impegno fondante del suo lavoro di pedagogo si è maturato nell’ambito dei licei classici torinesi, presso cui è stato ed è attualmente docente di filosofia e storia. Il fascino della figura intellettuale di Marcello Croce ha illustri predecessori in Torino. Si pensi ad Augusto Monti, figura magistrale di consacrazione di sé all’insegnamento presso il li­ceo classico Massimo D’Azeglio e intellettuale dedito alla formazione della giovane intellighenzia torinese. Similmente, anche oggi in Torino si contano colleghi di insegnamento, sebbene rarissimi, avvicinabili a Marcello Croce, quali Francesco Coppellotti, Filiberto Ferro, Giovanni Ramella e pochi altri. Segno che il decantato naufragio della scuola di formazione italiana si è verificato la­sciando intatte alcune isole di straordinaria eccellenza morale e culturale, che hanno saputo mantenere integra la figura di maestri di vita e di pensiero in grado di affascinare e ispirare nobili obiettivi nei giovani. Tutto ciò non c’entra nulla con la poesia, di cui ora parleremo. Però, si potrebbe anche dire l’esatto contrario. Tutto ciò è l’unico scopo valido della poesia: offrire esempi e indicare scale verso il cielo. Perché, che cosa altro potrebbe fare un poeta?
Il titolo potrebbe suscitare ambiguità con l’intento di Plutarco di creare un’aneddotica di identità e di corrispondenze dissonanti tra i grandi fondatori della classicità greca e romana, chiamati a un confronto fra loro, in modo creativo e talvolta arbitrario, ma con intento sempre artistico e, forse, pedagogico. In Marcello Croce le ambiguità non sono mai gratuite e ancora meno inconsapevoli. Tuttavia, sta di fatto che nella sua prospettiva d’autore, il parallelismo che il libro istituisce è tra la vita reale e la vita a specchio riflessa dalla letteratura, che un tempo si chiamava “ideale” ma che oggi tende sempre più a chiamarsi “virtuale”. Da un lato, c’è la vita che noi viviamo tutti i giorni; e d’altro lato, c’è la vita che noi raccontiamo di ave­re vissuto (o che avremmo voluto vivere), cioè che rielaboriamo con la mente, in una forma astratta di evocazione per simboli e metafore. Quest’ultima è una vita parallela, rispetto alla prima, che non riuscirà mai a congiungersi con quella e a divenire una cosa sola, se non in un asintoto posto all’infinito di una proiezione mentale, nella quale si possa sperimentare l’assurdo che la vita dell’arte coincida con la vita vissuta. Così, è giusto parlare di una vita della poesia, per significare un’entità astratta, figlia della lingua e del ragionamento, fatta di lessico e di teoretica. Ma neanche poi così campata in aria, perché strettamente legata, per il sangue e per i capelli, ai nostri penati, dalla culla alla tomba, composta della nostra carne, dal primo vagito al­l’ultimo gemito, vibrata sulle nostre emozioni, dal­la luce dell’amore alla tenebra dell’orrore, mon­do fedele e fantastico, creato per germinazione e moltiplicazione delle possibilità di espressione.
Si conviene sempre di dare un poco di ordine al caos e di introdurre delle distinzioni nel mag­ma. Marcello Croce, neanche a dirlo, sceglie la scansione ebdomadaria, che è poi quella genesiaca della Bibbia. Sette giorni per creare l’universo e sette sezioni per scandire il libro di poesia. Sono altrettanti contrassegni lessicali e di ragionamento, come abbiamo detto che sia la sostanza della vita poetica: Radici,Leggerezze, Angelica e altro, Senza perché, Barbagli, Veglie, Vite parallele. Sono immagini caleidoscopiche della stessa icona: la poesia. Composizioni per belle immagini di uno stesso magma di parole e pensieri, dietro il quale c’è la storia autobiografica di un uomo che si so­vrappone e si identifica con la storia ideale dell’intera umanità, che si sovrappone e si identifica con la storia dell’intero pianeta Terra. In modo che una passeggiata per la collina di Revigliasco, dove abita il poeta, è un camminare sulla “[…] zolla, c’insegnano, tettonica, / la massa d’ossa rotte, ma­cinate, / tritume di foreste, roccia dura / con infilati brontosauri e sauri / d’ogni altra specie. Insomma è la pancia / nascosta di questa gran terrazza / su cui dormiamo, mangiamo, / ci ab­bracciamo, ci facciamo del male”. La poesia svolge la funzione della navicella immaginaria capace di viaggiare nello spazio e nel tempo alla velocità del pensiero, di gran lunga superiore a quella massima possibile della luce e se volessimo usare una metafora non potremmo che pensare a “Quel vetro che arrivò a Portoferrajo / sospinto per vent’anni dalle ondate / del mar Tirreno, al quale un marinaio / prima d’inabissarsi con la prua / aveva dato un semplice biglietto / con il nome e la data, Quarantuno, / dopo scrivendo Non dimenticate, / perché son uno – morto per l’Italia”. Tutta la poesia che mai si è scritta e che si scriverà tuttavia in futuro è questa sola bottiglia “incrostata d’alghe e sale”, affidata al mare da “uno-morto per l’Italia”, cioè morto per un concetto bene identificato di Patria e di Bellezza, con i penati e con i lari, per il quale abbia un senso tirare le cuoia e affidare l’ultimo messaggio, non più che una data, un numero, un sospiro emesso nel vento della vita parallela, come una goccia d’inchiostro nel calamaio. Astrazione e realtà fuse insieme, in una sola metafora di carne e di spirito, che è l’amore per la donna amata, simbolo angelico di rinnovamento della vita, annunciazione della grazia, bellezza che ingemma nel ventre e idea che si invera nell’utopia: “Vidi solo i luoghi / dove non eri ed era questo infine / il miracolo, che tu fossi ogni dove, / divenuta infinita”. In parallelo stanno i precisi ricordi, “Quella volta che a tavola mio padre”, circostanziati nel particolare minuzioso di un semplice colpo di tosse, ma talmente tragico e definitivo da aprire l’abisso della predestinazione fatale, perché l’origine di quel mal di petto risale alla prima guerra mondiale, al “selvaggio Carso”, da dove prende inizio il sibilo ansante ed asmatico del padre del poeta, da “[…] quel colpo senza nulla / capire della pallottola che aveva / scavalcato l’Isonzo per bucarlo”. La leggerezza dell’amore sta nel gesto e nelle parole, semplici e perfette, che la donna consegna al suo uomo, nella sicurezza dell’abbandono al sonno tra le sue braccia, come in un sogno di speranza e di libertà, il frullo d’ali dell’uccello temerario che protesta il suo diritto di vivere: “Ma poi ci venne a trovare il pettirosso / spavaldo. // “È per le briciole che lascio”. / T’intimidiva se ti guardo la pancia. / Mi sussurrasti, a letto: “Scalcia” / – già con voce di sonno”.
Dice di sé, Marcello Croce: “Ho cominciato a scrivere ‘sul serio’ dagli anni del liceo (studi classici, presso il liceo Cavour), curando la redazione di un paio di giornali studenteschi di forte passione. Ho pure tentato i primi passi nella poesia, buttandomi su un po’ di tutto, come un cane affamato, dai maudits francesi (fino a Mallarmé e Valery), agli spagnoli, agli espressionisti tedeschi, e poi naturalmente al nostro novecento (da Campana a Montale, a Luzi, Giudici e Raboni). In lingua inglese mantengo intatto l’incanto della lettura di T. S. Eliot e di Ezra Pound, rimasti sempre fra i più amati.” La poesia è per Croce il viaggio nella coscienza dell’uomo moderno consapevole della sua insanabile condizione di solitudine e del suo insaziabile bisogno di corrispondenza: il messaggio perfetto nella scansione reiterata dei mille linguaggi di Babele, nei cento secoli di storia, rimandato sempre in parallelo dall’altro interprete che sta dietro al foglio, forse l’alterego o forse una qualche divinità corrispondente, in una ecolalìa di corrispettivi che è già soglia metafisica della sapienza.

Sandro Gros-Pietro

Premio I Murazzi per l’inedito 2010 (dignità di stampa)

Motivazione di Giuria:

Per l’alto fascino che il tempo sviluppa nella sua ricostruzione poetica, allusa ai grandi casi del mito e alle mezze figure del quotidiano, nella rete fitta delle analogie, tra contrasti e somiglianze, per climax e per salti, in un linguaggio poetico denso di memoria letteraria, nell’asciuttezza di uno stile misurato ma carico di echi: la Giuria ha attribuito la dignità di stampa anche nella considerazione del ruolo e delle responsabilità svolte nel campo dell’insegnamento, a vantaggio della formazione dei giovani.

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