PREFAZIONE

La poesia di Antonella Kubler appartiene all’emisfero della letteratura votata a interpretare le possibilità di ricerca e di rappresentazione del linguaggio poetico. Ciò che smuove l’interesse della scrittrice non è dare conto al lettore del mondo reale in cui è calato il discorso. L’ambiente circostante, gli eventi storici, l’esperienza autobiografica del poeta, l’orientamento della cultura verso i presunti valori di consistenza e spessore del discorso, quali la bellezza, il bene, la verità, l’amore del sapere e le altre categorie noumeniche della conoscenza umana, fino a sfumare nella ricerca metafisica: tutto ciò non rappresenta né il primario contenuto né la priorità della ricerca poetica della Kubler. Che cosa si colloca, dunque, al centro del discorso poetico di Kubler? Ebbene, vi si colloca l’argomentazione sulle occasioni che ha la poesia di raccontare il mondo. Non è il racconto del mondo, dunque, ma è l’evocazione delle possibili voci che potrebbero raccontarlo ovvero a esso alludere, eludere, traguardare, fantasticare. Non è la nave Argo in cerca del vello d’oro, ma è la proposta di alcuni progetti di navigazione: la scelta di mete, finalità, percorsi e metodi.
Se volessimo tentare un’interpretazione didascalica del titolo – non sappiamo fino a che punto affidabile come chiave simbolica dell’opera – l’immagine della zattera che prende il largo conduce a due soluzioni opposte, ma equivalenti: o il naufragio o l’approdo. Ma se bene guardiamo, l’alternativa è solo apparente, perché si tratta di una proposta bifida che, in realtà, fa corpo alla stessa lingua. Il naufragio o l’approdo parlano entrambi la stessa lingua del racconto poetico. La tragica disperazione della zattera dei naufragi condannati alla morte e al cannibalismo dipinta da Gèricault usa la stessa tecnica espressiva del dilettoso approdo su Citera dei nobili viaggiatori allietati dalla fortuna e dai privilegi dipinti da Watteau. Ciò non significa dire – sia ben chiaro – che essere destinati a una morte orrenda sia equivalente a essere ammessi a un’esistenza di raffinato piacere. Ma significa dire che la poesia racconta la tenebra e la luce con la stessa neutrale voce di rappresentazione del mondo. E non è poco, perché significa sollevare la poesia dalla responsabilità morale per i contenuti sviluppati.
Quale poi sia la possibilità del discorso poetico di dire il vero o anche semplicemente di rispecchiarsi nell’amore della conoscenza e quindi di elevarsi a forma sublime della ricerca filosofica è bene rappresentato dall’opzione esercitata dalla stessa Antonella Kubler di citare in copertina l’Ofelia dipinta da Millais. La povera aristocratica shakespeariana è la più illustre metafora poetica non già della colpa e del tramato inganno – come è Otello, che cade vittima di Iago – ma invece dell’involuto e arzigogolato fraintendimento anfibologico, che è una specialità grandiosa, esercitata continuamente dalla poesia. Ofelia è vittima del qui pro quo ovvero – se si vuole ingaggiare la raffinatissima espressione leopardiana – è vittima delle “vaghe stelle”, che fanno apparire qualcosa come fosse il vero e che forse lo è, ma che con identica probabilità non lo è affatto. La poesia è il discorso per antonomasia che non si prefigge di pervenire al vero, ma che organizza una rete di lussuosi e complessi fraintendimenti del vero, dai quali può nascere la gioia dell’invenzione, ma può anche na­scere la tragedia della disperazione e della morte, e quest’ultimo è il destino subìto da Ofelia, fonte a sua volta di ulteriori tregende fino alla catarsi conclusiva. Ma può Amleto essere responsabile del suicidio di Ofelia? Bella domanda, che merita la libertà di risposta da parte del lettore. Ma la grande poesia – purché per grande poesia si intenda: Shakespeare! – risponde con sicurezza che Amleto non è l’assassino d’Ofelia, e non lo è neppure moralmente. Ergo, rovesciando Cartesio: la poesia è, perché non cogita per nulla, ma perché, invece, destruttura le gabbie della ragione.
Lungo il filo rosso di una concezione della poesia che organizza la rappresentazione dell’essere sulle possibilità del ricorso alla parola, Antonella scandisce il libro in quattro sezioni, sarebbe un poco come dire che usa le quattro dimensioni della concezione spazio-tempo di Einstein per descrivere l’universo, che poi significa: la totalità che c’è, in una so­la rappresentazione. Le quattro dimensioni del di­scorso (metaforicamente, il “discorso poetico” è ov­viamente lazattera che va verso il largo) sono l’amore, la materia, l’individuo, la rigenerazione. Ogni lettore che abbia gusto e confidenza con le metafore poetiche, si legga le quattro sezioni e gioisca per le bellissime proposte di pensiero e di decoro formale che Antonella Kubler propone in ognuna d’esse. Serve a poco il commento, ma vale di più il compiacimento. Si noti, ad esempio, l’eleganza ironica della citazione di Alexandre Dumas – che poi significa anche il Giuseppe Verdi della Traviata – della Si­gnora delle camelie – quintessenza dell’eros romantico – nella brevissima e intensissima poesia: “ho mangiato camelie color latte / da tempo ne curavo i parassiti / osservavo profumo e consistenza / ma la temperatura / ha guidato i miei morsi”.
A parere di chi scrive, la sezione più innovativa ed esaltante è la seconda, arbitrariamente ribattezzata dall’estensore della presente come sezione della materia, che pare confrontare il protagonismo epico – perché solitario, insidiato, strenuo, ispirato – dell’essere umano messo a confronto con l’esistenza ieratica possente, silenziosa, apatica della materia: “si nasce in un vulcano dall’imboccatura larga / si gira intorno si cammina / terra di magma e fuoco”. Si leggano anche i bellissimi versi: “mondo ascolta: non hai bisogno di me o mondo / giri da sempre un moto / che in parte conosciamo”. È questa la sezione del libro che contiene la concezione della geoepica così come è stata più volte dal sottoscritto descritta in tante occasioni di commento: discorso di confronto binario tra la solitudine dell’uomo e l’impermeabilità della materia.
Nella terza sezione, si riprende anche il tema geoepico di confronto uomo/natura, ma alla luce di un maggiore scandaglio della dimensione individuale del concetto di uomo, cioè l’uomo in quanto singolo individuo, ogni volta manifestazione di vita irrepetibile nel grande scialo della creazione: “quando ci saremo abituati tutto sarà più facile / basta accettarsi per come si è fatti / e soprattutto non idealizzare troppo”. E nella quarta sezione trionfa il concetto di eternità della specie, rinnovo indefinito della precarietà della vita umana, segno debole e superficiale come una piuma, ma anche incisivo e rinnovabile come il corso delle stelle: “ti pianto nella terra / nel fondo ficco le radici tue / ti faccio male figlia sei da sola / nel buio delle fogne di un inverno / – labirinto d’inferno – cerca il seme / parola di Demetra”. Ecco tutta la forza umana che sfocia nel sovrumano, proprio per la possibilità che ha l’uomo di conservare la memoria che fa di lui qualcosa di più raffinato di un pesciolino rosso: quel potere andare a fondo delle “radici tue”, cioè rinnovarsi come eterna chimera che si rigenera dalle ceneri la vita e che fa dell’uomo un elemento di sovrumano, diviene l’eco delle parole di Demetra, la divinità che rinnova indefinitamente le stagioni del tempo, e che cioè diviene la voce dell’universo. Di questa voce si occupa il poeta, e ne racconta le possibilità espressive.

Sandro Gros-Pietro

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