Giancarlo Albisola Albertalli è nato a Castellamonte, in provincia di Torino, il 1° settembre 1930, da Pietro e Lucia Moretto, commercianti di stoffe e maglieria. È morto a maggio 2012.
Il padre del Poeta era di origine contadina. La madre apparteneva ad una famiglia benestante, anche se di fortuna recente, ed era nipote della Bèla Maijn (Maria Teresa Allaria Fulchieri), una figura leggendaria nota in tutto il Canavese, la quale era stata allevata da una zingara di San Giusto, ma che la voce popolare diceva figlia della contessa di Montecuccoli di Ozegna, e che piacque, fanciulla non ancora dodicenne, al Re Vittorio (Emanuele Seccondo), il quale ne fece la prediletta delle sue “amanti” nel Canavese. Da lui la Bèla Maijn avrà diversi figli, fra cui la nonna materna del Poeta.
Il Poeta fa fatto studi classici in collegio a Torino e successivamente studi di Architettura e Giurisprudenza, ma non gli è stato possibile laurearsi in Lettere come era sua intenzione.
L’amore possessivo della madre, la quale avrebbe voluto farne un medico, professione per la quale egli non si sentiva psicologicamente tagliato, l’incomprensione del padre, uomo brutale e manesco, che non ne accettava la “diversità”, le condizioni politiche del momento e l’“anima nera” di un “ragazzo perduto” (Bibe…), lo hanno costretto, a venticinque anni, a varcare le soglie di “Villa 18-1”. Qui ha conosciuto il giovine R… (Rafele) e ne ha fatto il protagonista del suo primo volume di versi Poesie per un “diverso” (Rebellato editore).
Dopo aver girovagato a lungo da una clinica all’altra, alla morte del padre si è rifatto un’esistenza ed ha diretto per venticinque anni la “Biblioteca Civica” della sua città. Come poeta è stato “scoperto” da Pier Paolo Pasolini, attorno agli anni ’70, il quale gli ha pubblicato le prime poesie su Nuovi Argomenti, e poi da Franco Fortini e Natalia Ginzburg, i quali hanno pubblicato, con l’avallo di Italo Calvino, una scelta delle sue poesie in apertura del volume Nuovi Poeti Italiani nº 1 (Albisola, Audisio, Cascella, ecc.), edito da Einaudi nel 1980 e lo hanno incoraggiato a scrivere le elegie del suo secondo volume, intitolato Così, dedicato al giovane Lelio, morto tragicamente nelle acque del Po in giovanissima età. Nel 1995 ha raccolto in volume, per le Edizioni di Cultura e Società, tutta la sua produzione poetica, comprendente anche le Poesie giovanili e le Poesie sparse.
Ha conseguito la “Menzione d’Onore” al Premio “Guido Gozzano”, ad Agliè nel 1983, per una lirica inedita, il Primo Premio al Concorso di poesia “Francesco Carandini”, ad Ivrea nel 1984, ed è stato premiato, per la critica letteraria, nel 1998 con il suo saggio intitolato Pascoli.
A gennaio 2005 è uscita, presso Montedit, l’edizione definitiva delle Elegie, intitolata Hoc erat in votis, collana I Gigli. (www.montedit.it, fax 029835214), seguita nel 2006 dalla seconda edizione, euro 15,00.
Nel 2006 il critico di poesia “gay” e lesbica Gianluca Polastri nel saggio introduttivo al volume Cuori smascherati, edizioni Ananke, a cura della “Fondazione Sandro Penna”, ha collocato il poeta Giancarlo Albisola Albertalli fra i grandi maestri della poesia omosessuale del ’900, accanto a Sandro Penna, Pier Paolo Pasolini, Gian Piero Bona e Mario Stefani, nonché a tre rappresentanti della “scuola romana”. Giancarlo Albisola Albertalli è considerato oggi il maggiore poeta “gay” vivente di estrazione “belga”.
ANGELO DELLA LUCE
… Forse non ti vedrò mai più, ma so che resterai sempre con me indiviso come sei stato già dal primo istante che t’ho veduto. Ecco, ho pensato allora, a non come l’Orfeo e l’Euridice di Jean Anouilh, troppo tardi incontrati, di troppo tardi usciti nella notte dalle tenebre informi del Destino. Pensa io 22, Tu tredicenne, pensa io 24, Tu quindicenne, le cinque, le sei, già discende la sera, noi due soli e s’accendono in basso le prime luci del neon, la scritta “MARTINI & ROSSI” accesa alterna sui tetti della Stazione e spenta, noi due soli, Tu disteso nudo fra le mie braccia, lente calano lacrime come caldi rubini dalle tue ciglia, Baby. 1962 APOCALITTICA (II, 43) (Il volto) Una sera, poco prima la fine, quando i cieli smarriti già saranno prossimi a decadere, adolescenti bellissimi, sparuti, accesi in volto, si diranno Rafele (allora il volto già solcato di rughe guarderai un istante allo specchio, scosterai inorridito il volto (lenta avvolte una rovina sola uomini, cose), Rafele, ti dirai, dirà il ricordo: “… me célébrait, du temps que j’étais beau!” (1) Se una lacrima allora il bianco volto solcherà, le tue mani se un tremito leggiero sconvolgerà bianchissime (si leva di fumo (al fumo s’appanna lo specchio) amara una boccata), allora in pianto si disciolgano i cieli e Tu sconfitto già da la vita, dal male, Tu, io, noi, voi tutti si vedrà nell’istante supremo che il globo sul marasma liquido precipiti al sole che s’oscura fulgido splendere tra le rovine i fumi il Marc’Aurelio d’oro. (2) 1962
(1) “Ronsard me célébrait, du temps que j’étais belle!”, Ronsard, II, 43, “Quand vous serez bien vieille, au soir à la chandelle”, “Sonnets pur Hélène”. Ma in luogo del “fier dédain” (la “parfaite amitié”, la calda amicizia del Poeta è qui corrisposta), sta la presenza allucinante, ossessiva del male, il “male-di-vivere” fatto malattia. (2) Secondo l’antica profezia, quando (per agenti atmosferici?) ricomparirà sulla statua dell’imperatore in Campidoglio la doratura che la rivestiva un tempo, allora la “civetta” canterà, Roma cadrà e, colla caduta di Roma, verrà la fine del mondo. La “civetta” è il ciuffo di bronzo che spunta fra le orecchie del cavallo.
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